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A qualcuno piace laico

Pur non avendo il risalto mediato che meriterebbe, per colpa della solita sovraesposizione del “povero Silvio”, questo è il mese dell’elezione diretta del nuovo segretario del Partito Democratico.

Domenica 25 ottobre tutti gli elettori che vorranno andare a  votare (tutti, non solo gli iscritti al PD) potranno scegliere tra tre candidati: Pierluigi  Bersani, Luigi Franceschini e l’outsider Ignazio Marino, che già tra gli iscritti al partito ha ottenuto uno straordinario successo, davvero imprevedibile. 

Marino, dei tre candidati, ha poi un indubbio merito: è il più chiaro nelle sue proposte politiche.  Ecco ad esempio come si può sintetizzare in 40′ un programma in tema di diritti della persona:

 

Proposte chiare, semplici, immediate, e soprattutto in linea con il sentire comune probabilmente di tutti gli italiani, sicuramente degli iscritti al Partito Democratico.   Chissà se l’esperimento di Ignazio Marino avrà successo, oppure se tanti che potrebbero dargli fiducia preferiranno rifugiarsi nel “tanto non cambia nulla”…

Addio lodo Alfano

E così è successo; la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la legge 124/2008 che prevedeva la sospensione dei processi penali a carico delle quattro più alte cariche dello Stato: presidente della Repubblica, presidenti delle Camere, presidente della Corte Costituzionale stessa e quale altra?  Ah, sì anche il Presidente del Consiglio dei Ministri.

La Consulta

Il motivo della  decisione della Corte non ci vuole molto a capirlo, anche prima di leggere le motivazioni, basta leggere il dispositivo:

La Corte costituzionale, giudicando sulle questioni di legittimità costituzionale poste con le ordinanze n. 397/08 e n. 398/08 del Tribunale di Milano e n. 9/09 del GIP del Tribunale di Roma ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 23 luglio 2008, n. 124 per violazione degli articoli 3 e 138 della Costituzione

In pratica, la Corte ha detto che il c.d. lodo Alfano ha violato l’art. 3, ovvero l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, che eventualmente avrebbe potuto essere derogata con legge costituzionale secondo le procedure previste dall’art. 138 Cost.

La decisione della Corte Costituzionale è la migliore risposta a tutti quelli che sostengono che l’Italia sia in mano a un regime semidittatoriale, esagerazione che ha avuto il suo apice con l’incredibile manifestazione in difesa della libertà di stampa di sabato scorso.   Adesso prepariamoci ad esagerazioni uguali e contrarie dal lato opposto, con il colmo di una maggioranza parlamentare che -caso unico al mondo tra i paesi democratici- parla di scendere in piazza, non si capisce in nome di chi e per che cosa.

In Italia democrazia e libertà di stampa non sono in pericolo.  Lo sono da altre parti, ed anzi è importante ricordare che il 7 ottobre di tre anni a Mosca veniva assassinata Anna Politovksaja, coraggiosa giornalista russa che aveva avuto il coraggio di denunciare i comportamenti dell’esercito russo in Cecenia e le gravi violazioni dei diritti civili da parte del regime ceceno di Ramzan Kadyrov.

In Russia per fare il lavoro di giornalista fino in fondo ci vuole grande coraggio, in Italia il coraggio serve solo per non cadere nelle esagerazioni…

Contro tutte le isterìe

Rogo di Savonarola

La deriva moralistica-bacchettona del giornalismo italiano (perché la società va in tutt’altra direzione) fa la sua prima vittima: Dino Boffo, il direttore de L’Avvenire, che si è dimesso dopo gli editoriali de Il Giornale di Vittorio Feltri che lo accusava di avere concordato il pagamento di una multa di 500 euro per un episodio di molestie, anche se la chiave della vicenda non era tanto questa, quanto i comportamenti privati di Boffo, che in un moderno paese europeo non avrebbero nulla di riprovevole; ma l’Italia non è ancora (o non è più?) un moderno paese europeo.

Bisogna però dire che il moralismo bacchettone è nato dall’altra parte, in quel giornalismo che invece di criticare il quarto governo Berlusconi per quello che ha fatto e soprattutto per tutto quello che non ha fatto, si occupa di quello che fa in camera da letto, che saranno anche affari suoi.   Attacchi così fastidiosi che sono riusciti persino a rendere simpatico Berlusconi a me, che non l’ho mai votato e mai lo farò.

Lo so che non è la stessa cosa, ma purtroppo non riesco a non vedere un collegamento tra il moralismo di chi attacca Berlusconi per i suoi comportamenti privati, e l’attacco giornalistico di cui è rimasto vittima Dino Boffo, cui va tutta la mia solidarietà.

Della solidarietà a Berlusconi non c’è bisogno, lui si difende da solo, anzi straborda nelle sue difese fino a farsi male da solo, probabilmente.

Adesso ha fatto causa a Repubblica e L’Unità, due cause civili in cui ha richiesto svariati milioni di euro.   La sua mossa ha suscitato una reazione che dal mio modesto punto di vista è davvero esagerata.  Tre autorevoli giuristi hanno promosso un appello contro l’attacco alla stampa che consisterebbe proprio nelle due cause civili, e che sarebbe (cito)

un tentativo di ridurre al silenzio la libera stampa

Addirittura?  Una semplice causa civile avrebbe tutta questa forza? Ma ci dimentichiamo che la causa dev’essere discussa in tribunale, che ci saranno tre gradi di giudizio, che entrambe le parti potranno dimostrare le loro ragioni, che poi il tutto durerà degli anni.

Tanto per parafrasare il testo dell’appello, stupisce davvero che tre esimi giuristi come Franco Cordero, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky abbiano firmato una simile enormità.

Una causa civile non è un’intimidazione, è la richiesta di un giudizio su alcuni fatti.

Se Berlusconi ha ragione, e quello che è stato scritto su di lui sono falsità, tutte invenzioni di giornalisti malevoli, è giusto che abbia un risarcimento, anche se probabilmente non otterrebbe comunque più di 100-200 mila euro, altro che i milioni richiesti.

Ma mettiamo invece l’ipotesi che le cose scritte da Repubblica e L’Unità siano vere. Berlusconi non solo perderebbe la causa, ma potrebbe esporsi al rischio che i giornalisti dimostrino in giudizio la verità di quanto hanno scritto, per esempio chiamando a testimoniare i protagonisti delle varie vicende.  Una situazione che potrebbe essere molto, molto imbarazzante per il Presidente del Consiglio, se quello che è stato scritto fosse vero.

A parte il fatto che potrebbe perdere comunquie la causa perché, ad esempio, la diffamazione riguarda i fatti narrati e non certo i giudizi o le critiche di natura politica.  Figurarsi le domande.    Ma non c’è nulla da indignarsi o protestare se qualcuno (si chiami anche Silvio Berlusconi) comincia una causa civile…

Cattive leggi, buona Corte

procreazione

Diciamo la verità; non penso che nessun giurista sarebbe stato pronto a scommettere 50 centesimi sulle possibilità che la legge 19 febbraio 2004, n. 40 sulla fecondazione assistita avrebbe superato indenne l’esame di costituzionalità; infatti, come previsto, lo scorso 1 aprile la Corte Costituzionale l’ha dichiarata incostituzionale sia dove bbligava la donna a sottoporsi ad un unico e contemporaneo impianto degli embrioni, fino ad um massimo di tre, sia dove non prevedeva che il trasferimento degli embrioni dovesse essere realizzato senza pregiudizio della salute della donna.

E probabilmente la sanzione dell’incostituzionalità avrebbe toccato anche altri punti della legge, se fossero stati rilevanti nel giudizio dove è stata sollevata la questione di costituzionalità.

Il risultato era scontato perché nella nostra carta costituzionale ci sono una serie di norme fondamentali che nel votare quella legge il legislatore ha fatto finta di non considerare:

l’art. 2, che riconosce i diritti inviolabili dell’uomo;

l’art. 3, che impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana;

l’art. 13, più specifico, che inizia sancendo “la libertà persona è inviolabile”;

l’art. 32, il più importante in questo caso, che recita:

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Bene, ora provate a raffrontare questi principi costituzionali con quelli alla base della nuovo proposta di legge sul testamento biologico approvato dal Senato e adesso in discussione alla Camera; l’incompatibilità è evidente, l’incostituzionalità assicurata.  Basti pensare all’art. 3, comma 5, dove si prevede che l’alimentazione e l’idratazione non possono essere oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento ma ancor di più all’art. 7, dove si prevede che il medico possa o meno seguire le indicazioni del testamento biologico, ma deve però tenere conto del principio dell’inviolabilità della vita umana (sic!).  Alla faccia della libertà e del rispetto della singola persona, che forse (forse, eh!) è perfettamente in grado di decidere in piena coscienza sulla propria vita.

Un altro esito scontato del giudizio di costituzionalità.

Un’incostituzionalità urlata

E’ davvero deprimente assistere allo spettacolo offerto in questi giorni e in queste ore dal governo guidato da Silvio Berlusconi; la pressione di un potere tanto influente da rendere irrilevanti i sondaggi che danno una preponderante maggioranza degli italiani (54% contro 30%) favorevole alla fine delle cure per la povera Eluana Englaro, il premier e il ministro Sacconi partoriscono un decreto legge, che dopo il doveroso rifiuto della firma da parte del presidente Napolitano, diventa un disegno di legge.

Si supera l’ostacolo della necessità ed urgenza, ma l’incostituzionalità della norma rimane.

Questo è il testo dell’ex bozza decreto oggi disegno di legge:

In attesa dell’approvazione della completa e organica disciplina legislativa sul fine vita alimentazione e idratazione in quanto forme di sostegno vitale e fisologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze, non possono in alcun caso essere sospese da chi assiste soggetti non in grado di provvedere a se stessi

A parte il fatto che, come viene insegnato al primo anno della facoltà di giurisprudenza, le leggi devono essere generali ed astratte, e non risolvere un singolo caso concreto, la norma è in evidente contrasto con agli art. 13 e 32 della Costituzione, che sono alla base del diritto di ogni persona all’autodeterminazione e alla piena libertà di scelta in ambito sanitario, che come ha precisato la Corte di Cassazione non si ferma nemmeno di fronte al sacrificio del bene supremo della vita.

Così com’è la norma, che non è riferita ai soli soggetti incapaci, ma a tutti coloro che non sono in grado di provvedere a sé stessi, è manifestamente incostituzionale.
Un’incostituzionalità urlata, e che urta la sensibilità giuridica come quella comune; vogliamo forse un governo che ci obbliga a curarci anche se non lo vogliamo?

Speriamo che nella coscienza dei parlamentari prevalga la ragionevolezza, e che nel segreto dell’urla ognuno dei deputati e dei senatori voti come ritiene giusto, e non come gli viene chiesto (o imposto).

Disordinamento giuridico

Una legislazione incoerente ed episodica sta distruggendo le fondamenta di quello che forse è davvero arduo continuare a definire come il nostro sistema giuridico.

Gli esempi, anche recentissimi si moltiplicano, ma due esempi sono più significativi.

Il primo riguarda le misure approvate oggi stesso dal Senato, che prevedono una stretta sulla custodia cautelare e sul regime carcerario per gli indagati per il reato di violenza sessuale. Giusto, sacrosanto, ma perché non prevedere le stesse misure per reati altrettanto gravi come l’omicidio, la strage, il sequestro di persona, reati tutti puniti con pene ben più elevate? Non era forse più logico aumentare semplicemente le pene per il reato di stupro (e sarebbe stato un gran bel segnale) o magari decidersi una volta per tutte a rivedere la legislazione premiale per i condannati a reati violenti? Macché, si finge di fare la voce grossa e nel frattempo pesino chi è stato condannato a sei ergastoli se ne esce di prigione dopo avere scontato circa 4 mesi per ogni vittima.

Altrettanta incoerenza sul piano delle leggi elettorali; normalmente in un paese le forze politiche scelgono un sistema elettorale di base, che viene utilizzato in tutte le elezioni, magari con qualche leggera differenza tra elezioni politiche e amministrative. In Italia, invece, è il caos più completo, quasi fossimo il laboratorio di un costituzionalista impazzito.

Comune e province: proporzionale con premio di maggioranza ed elezione diretta del sindaco e del presidente della provincia a doppio turno

Regione: ognuna fa per sé, ma comunque prevale il modello di sistema proporzionale con premio di maggioranza ad un solo turno, qualche volta con sbarramenti

Camera dei Deputati proporzionale con sbarramento del 4% per partiti non coalizzati e sbarramento del 2% per partiti di coalizioni che ottengono almeno il 10%. e premio di maggioranza nazionale

Senato: proporzionale con sbarramento dell’8% per partiti non coalizzati e sbarramento del 3% per partiti di coalizioni che ottengono almeno il 20%. e premio di maggioranza regionale

Parlamento europeo: proporzionale con sbarramento del 4%

Voto di preferenza: qualche volta sì, qualche volta no.

Da tutto questo emerge un solo filo comune: che la finalità di questo legislatore non è dare al Paese una legislazione adeguata e funzionale, ma solo inseguire l’interesse del momento.

Ingiusta giustizia

E’ come se uno avesse problemi ai freni e decidesse di cambiare i cerchioni delle ruote, perché non gli piacciono più.  Ecco, questo è l’approccio del governo Berlusconi quater (è il suo quarto tentativo, non dimentichiamolo) al problema della giustizia italiana.

Noi operatori del diritto siamo quotidianamente alle prese con un problema devastante come la lunghezza dei processi, che in certe realtà porta a rinvii di 6 o 7 anni da un’udienza ad un’altra, a causa della carenza di organico dei magistrati e del fatto che molti di loro in realtà fanno altro, dai consiglieri giuridici nei ministeri alla direzione organizzativa degli uffici giudiziari stessi.

Invece per il governo i problemi urgenti da risolvere sono la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri,  piu’ poteri alla polizia giudiziaria e meno ai pubblici ministeri, e ulteriori norme a favore degli imputati nei processi penali.   Curioso, perché probabilmente la cittadinanza italiana non ha l’impressione che la giustizia penale in Italia sia particolarmente dura o severa, e i casi di Pietro Maso, di Erika e Omar, di gran parte dei terroristi rossi e neri sembra dimostrare il contrario.  

Macché.  Il governo Berlusconi quater vuole una giustizia penale ancora più morbida ed inefficiente.  E intanto, tra riformette incommentabili, la giustizia civile sprofonda lentamente ma inesorabilmente verso il fondo, a scapito dei cittadini onesti e corretti, di chi lavora e magari vorrebbe essere pagato per il suo lavoro, di chi ha subito un danno e vuole ottenere un risarcimento, di chi vuole rifarsi una vita dopo un matrimonio fallito.  

Unica consolazione: se si infuriano e fanno una pazzia, perlomeno avranno un giudizio penale con tutte le garanzie del c.d. giusto processo.

Ah ah ah

Relativismo no grazie

La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata quasi sessant’anni fa (il 10 dicembre 1948) non è l’unica e alla fine non è nemmeno tanto universale. D’altronde, in nome di quel relativismo che alla fine finisce nel concreto per negare quegli stessi valori (di libertà, eguaglianza e fratellanza) che in teoria vorrebbe proclamare, tanti hanno criticato la sua impronta troppo occidentale, o troppo condizionata dalla tradizione giudaico-cristiana.

E così, sono venute fuori altre dichiarazioni dei diritti dell’uomo, tra cui la dichiarazione dei diritti dell’uomo nell’Islam, approvata al Cairo nel 1990, che si può leggere integralmente a questo link.

La lettura è interessante, soprattutto per le donne. La dichiarazione del Cairo riconosce, come quella universale, i diritti fondamentali degli individui, e sembra molto più avanzata rispetto alla situazione concreta dei diritti civili in gran parte dei paesi islamici, ma alcuni punti lasciano un po’ perplessi.
Per esempio l’art. 17, dove si dice che:

Ognuno deve avere il diritto di vivere in un ambiente pulito, libero da vizio e corruzione morale (testo originale: away from vice and moral corruption).

Non male anche l’art. 22, sul diritto d’espressione, libero ma in conformità ai principi della Shari’ah. Anche perché, come chiarisce la norma:

L’informazione è una vitale necessità della società. Non dovrebbe essere sviluppata o usata male in modo da violare la santità e la dignità del Profeta, diminuire i Valori morali ed etici oppure disintegrare, corrompere o rovinare la società o indebolire la sua fede.

Insomma, liberi ma non troppo.
Ma veniamo al genere femminile, di cui pure vengono sanciti il diritto al lavoro e all’educazione dei figli. Per la dichiarazione del Cairo

La donna è pari all’uomo nella dignità umana, ed ha i propri diritti di realizzarsi così come i propri doveri di comportamento, e ha la propria soggettività giuridica e indipendenza economica, e il proprio diritto di mantenere il proprio nome e la propria linea famigliare.
Il marito è responsabile per il mantenimento e il benessere della famiglia.

Insomma, chi comanda s’è capito, ed è curioso poi che la regola diritti / doveri valga per la donna, ma non per l’uomo.
E’ vero, sarebbe già tanto se tutti i paesi di religione islamica (e non solo) rispettassero i principi della dichiarazione del Cairo.

Ma io continuo a preferire la nostra dichiarazione occidentalista; e pazienza per il vizio e la corruzione morale che mi circondano. Me ne farò una ragione.

Il diritto all’autogoverno

Federalismo fiscale, autonomie locali, devolution. Stiamo parlando delle cose sbagliate. La vera questione che dovrebbe essere al centro del dibattito politico dovrebbe essere il diritto all’autogoverno. Forse non ne siamo abbastanza consapevoli, ma il principio dell’autogoverno è già presente, sotterraneo come un fiume carsico, in molte discussione di politica (apparentemente) locale.

Basta citare alcuni nomi di luoghi, per capire di cosa intendo parlare: Val di Susa, Ampugnano, Chiaiano, Vicenza.
Quest’ultima è forse la questione più emblematica, da quando la decisione del Comune di Vicenza di svolgere un referendum popolare sulla nuova base americana all’aeroporto Dal Molin è stata sospesa dal Consiglio di Stato con un’incredibile ordinanza che esorbitando evidentemente dai poteri dell’organo di giustizia amministrativa è entrata nel merito del quesito, impedendo ai cittadini di Vicenza di dire il proprio parere in maniera ufficiale.
La reazione della città è stata però ancor più significativa, perché la consultazione spontanea organizzata in poche ore dai contrari alla nuova base ha avuto una partecipazione mai vista prima per un referendum auto-organizzato, dimostrando così che la città di Vicenza reclamava il diritto di decidere per sé stessa.

Una parte importante dei cittadini di Vicenza ha così rivendicato il proprio diritto all’autogoverno, nel clamoroso silenzio di quella forza politica (la Lega Nord) che a parole difende gli stessi principi ma che in questa vicenda ha invece appoggiato il centralismo più assolutista e accentratore.

L’aspetto più interessante è però proprio la rivendicazione del diritto all’autogoverno delle comunità locali, in opposizione all’identificazione della sovranità popolare solo con il livello di governo statuale.
Vicenza è solo una delle comunità locali che chiede di decidere liberamente e in piena autonomia dello sviluppo economico, sociale e culturale del proprio territorio, chiedendo il rispetto di un diritto che è stato riconosciuto anche a livello internazionale dalla Carta Europea dell’Autogoverno locale, approvata a Strasburgo il 15.10.1985.

Il diritto all’autogoverno consiste nel diritto di ogni comunità locale ad avere l’ultima parola sulle decisioni che riguardano in primo luogo il suo territorio e i suoi componenti, ed a poterla esprimere nella maniera più democratica, senza imposizioni dall’alto.
Si tratta di un diritto che può ricostruirsi come una sorta di sintesi tra il principio anglosassone del no taxation without representation e il diritto di autodeterminazione dei popoli sancito dall’art. 1 del Patto internazionale dei diritti civili e politici del 1966, il quale prevede che i popoli hanno diritto di decidere liberamente del loro statuto politico e di perseguire liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale.

Il diritto all’autogoverno locale, inteso nel senso più ampio, è affine anche al principio del self-government di cui si parlava già nel XIX secolo negli Stati Uniti, e che venne definito come

great principle of popular sovereignity, which guaranties to each State and Territory the right to do as it pleases on all things, local and domestic, instead of Congress interfering

Lo stesso principio, del resto, non è affatto sconosciuto alla nostra storia giuridica e politica. Tutt’altro: le radici del diritto all’autogoverno le troviamo già nel nostro medioevo, in quelle teorie giuridiche che nel Medioevo diedero dignità teorica alle libertà comunali, e tra tutte il pensiero di Bartolo da Sassoferrato, che già nel XIV secolo scrisse del concetto di jurisdictio come diritto di ogni comunità a darsi delle leggi.

Purtroppo, in seguito, la storia d’Italia vide trionfare principi del tutto opposti: l’attuale organismo statuale si è di fatto evoluto da una monarchia assoluta e centralista, e nonostante le varie vicissitudini storiche che comunque lo hanno democratizzato, ha purtroppo conservato una linea di continuità che rimane quella di uno Stato in cui il potere è accentrato a livello nazionale.

Forse adesso, però, i tempi sono maturi per tornare a rivendicare il diritto di ogni comunità locale a decidere per sé stessa e per il proprio territorio, riprendendo il filo interrotto dai troppi assolutismi che hanno contraddistinto la storia d’Italia. Jurisdisctio, self-government, autogoverno, sono parole di cui dobbiamo (ricominciare a) parlare.

Il danno esistenziale è vivo e lotta insieme a noi

Grandi novità dalla Cassazione, che dopo tanta attesa ha finalmente depositato le sentenze sul danno esistenziale, e sul danno non patrimoniale in generale.

Alcune notizie d’agenzia danno per defunto il danno esistenziale, ma non è affatto così.  Basta leggere le motivazioni della sentenza 26972/2008 (che si possono leggere a questo link) e delle altre sentenze “gemelle” (numerate 26973, 26974 e 26975) per capire che le cose stanno in maniera completamente diversa.  Basta leggere questo interessante passaggio:

in presenza di reato, superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d’animo transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile.

Non a caso, il giudizio deciso dalla sentenza n. 26972/2008 si è concluso favorevolmente al danneggiato, che reclamava proprio il mancato risarcimento del danno esistenziale.

La Cassazione, comunque, ha ridisegnato completamente il danno non patrimoniale, rimescolando le carte e riportando tutti le sottocategorie di danno (biologico, morale, esistenziale) nell’unico grande calderone del danno non patrimoniale.

Di fatto, però, ha confermato che va risarcito ogni danno ad un diritto tutelato dalla Costituzione o da Convenzioni internazionali, si tratti del danno alla salute (il danno biologico) o del danno ai rapporti famigliari, alla reputazione personale, alla professionalità e quant’altro (tutto ciò che veniva risarcito con il danno esistenziale).   Insomma, danno biologico e danno esistenziale continueranno ad esistere nella pratica del diritto, come sintesi di concetti più complessi.

Dove le cose cambiano del tutto, è per quanto riguarda il danno morale.   Ma le sentenze sono ancora fresche di stampa, le cose scritte sono tante e anche un po’ contraddittorie, che bisognerà metabolizzarle con calma.

Nel frattempo, in ogni caso, va ribadito che il danno esistenziale (quello vero, quello più importante) non è stato affatto cancellato, ma rimane ancora uno straordinario strumento di tutela per chi ha subito un danno.